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Interpretazione personale di Tribals in chiave Storico-Fantasy

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Intendevo solo dire che a volte sui periodi complessi "stecchi" qualche tempo. Niente che non si possa sistemare con qualche rilettura, comunque. Esempio:

Alla domanda dove fosse finito Bon, gli risposero che fu chiamato d’urgenza dal capitano del suo reggimento per affrontare un gruppo di barbari che cercava di derubare le carovane in uscita dal cancello nord orientale.

Qua forse sarebbe stato più corretto mettere "era stato", visto che l'evento cui si riferisce la subordinata è anteriore rispetto al tempo della principale.

Altro esempio:

Con lo sguardo fisso nel vuoto Batan se ne stava con la fronte appoggiata sul freddo vetro e con le braccia conserte a riflettere sugli avvenimenti di quella giornata pazzesca. Lui e i sui compagni si sono ritrovati nel dormitorio prima ancora che se ne rendesse conto.

Anche qui, se colgo il significato che volevi dare, ci stava "si erano ritrovati".
 

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Capitolo 5: Casa che vai, gente che trovi

Un evento straordinario, un fatto che pensiamo sia impossibile che accada, ciò che crediamo sia solo frutto della nostra immaginazione, o ciò che crediamo di vivere e rivivere solamente nei nostri sogni, di cui invece scopriamo la netta realtà, può produrre effetti diversi sul nostro comportamento, inizialmente. L’incredulo non crede, lo scettico dubita, il fedele prega, il codardo cerca aiuto, lo stupido chiude gli occhi e si tappa le orecchie. Il risultato finale, tuttavia, è sempre lo stesso. Non ci lasciamo catturare facilmente dall’irrealtà di un evento, siamo agili, scappiamo finché il pensiero razionale lo permette; ma l’immanenza è reale, ciò di cui abbiamo esperienza è nella natura di ciò che ci circonda, ci arrendiamo infine all’evidenza. Quando la fisica non ha più valore e le leggi del creato vengono violate, subentra l’angoscia per una cosa fuori dall’ordinario, perché abbiamo paura di ciò che non conosciamo e la cui esistenza non abbiamo mai neppure considerato.
Ci volle dunque una buona ora perché gli allievi di Ensifer fossero in grado di elaborare i fatti e potessero farsi un’idea di ciò in cui erano capitati. Dopo che il maestro li aveva riaccompagnati nell’atrio, si era poi congedato per ritirarsi nelle sue stanze, accompagnato dalla governante; era poi tornato dal campo di allenamento anche Galahad con lo sguardo assente e le labbra secche e sporche. Guardarsi l’un l’altro ogni tanto e fissare le bellissime miniature di strane forme geometriche sugli scaffali era tutto ciò che osavano fare in quel momento. Lo strano animale nella gabbia era immobile, ma a tratti lo si vedeva emettere la lingua biforcuta per poi ritirarla immediatamente; il gatto non era più sulle scale, ma il suo debole miagolio era udibile e sembrava provenire da tutte le direzioni. Un grosso armadio con l’anta di vetro mostrava agli ospiti della casa il suo interno meccanico, composto da una piccola asticella che lentamente scorreva su una piattaforma rotonda, sovrastante un batacchio che oscillava senza mai fermarsi e che quando raggiungeva la massima ampiezza ticchettava con un suono appena udibile. In quel momento sembrava tuttavia rumoroso. La stanza non era sembrata così minacciosa la prima volta in cui ci erano entrati.
Lo smarrimento e l’angoscia cominciarono a diradarsi qualche minuto dopo che Galahad era rientrato. Ad innescare la voglia di parlare era l’amicizia e l’ilarità, come al solito. Joys stava fissando la barbetta bionda di Gal così intensamente che il nipote di Hans non poté fare a meno di allungare il collo e di assumere un’espressione interrogativa.
– Hai… hai dello sporco… qui – disse toccandosi alla destra del proprio labbro superiore. Galahad si toccò invece la parte sinistra. E Joys scosse la testa.
– Dall’altra parte, scemo.
– Scemo a chi, stupido d’un cane? Che con quei capelli rossi sembri uscito dalla casa delle bambole!
Ci fu un breve sghignazzare dei compagni durante il quale Gal si strofinò bocca e guance col dorso della mano.
– Se esco dalla casa delle bambole, vuol dire che ho baciato una sventola di bambola, mentre tu chi hai baciato oggi Gal? Su su, dimmelo! Un uccellino mi ha detto che sei andato a letto con un cavallo di bronzo, è vero?
Le risate dei compagni furono ora più lunghe e l’allegria dilagò.
– Ah! Non farmi pensare a quell’odioso cavallo! Quel cavallo era sporco e freddo! E l’acqua alla base della statua mi faceva scivolare continuamente per cui finivo con la faccia nel fango fra gli zoccoli.
– Ma davvero? Quella cavalla sarà per te una moglie recalcitrante! Si monterà la testa anziché farsi montare da te!
La battuta con doppi sensi suscitò forti acclamazioni e qualcuno si stava letteralmente piegando in due dalle risate, mentre Galahad arrossiva ogni secondo di più, non sapendo cosa rispondere.
– Ve l’avevo detto io che quello che avevo visto nell’accampamento era vero.
– Hai ragione Volmar, scusaci ma… era troppo incredibile per essere credibile… non so se mi spiego.
– Dio! Ma l’avete visto? Che meraviglia quella spada! Non c’è da stupirsi se adesso è l’eroe della città di Platino!
– E’ vero, quella spada è micidiale e scommetto che vince qualunque battaglia, con quella.
– Dio se era abbagliante! Mi sembrava di avere il sole in faccia!
– Pensate che esistano altre armi come quella?
– Ovviamente!
– Ovviamente no!
– Naaah… improbabile.
– Forse.
– Diamine! Una sola non è abbastanza per te?
– Non pensavo che Ensifer fosse in grado di fare una cosa del genere! Insomma… oh porca miseria! Ma ci pensate! Io non avevo mai letto da nessuna parte che Dio dà questi poteri. Inoltre non avevo mai sentito parlare di armi benedette. Voi che ne pensate?
– Io penso che Dio può tutto, e se può tutto può benedire un’arma.
– Mah… io invece penso che sia stato proprio Ullrich, un paladino benedetto, a trasferire la benedizione sull’arma. Pensateci un attimo, perché mai Dio dovrebbe benedire un’arma? Le armi fanno male, e Dio non vuole mica il male.
– Ah sì? Mai sentito parlare di guerra santa, Tifone? Se lo si fa per difendere i deboli o un luogo sacro, è lecito ed è cosa buona.
– Guerra santa o maledetta, non fa differenza, Edwin. Che l’arma sia benedetta dal paladino o da Dio, è pur sempre sacra, di conseguenza non può essere votata al male.
– Ecco perché Ensifer chiedeva a Volmy se lo considerasse uno stregone. Gli stregoni fanno quegli strani sortilegi per fare del male alle persone… be’ Ensifer non è cattivo, ma benedetto, quindi anche la spada di Ullrich è benedetta, non c’è altra spiegazione.
– Ma questo lo sapevamo già. Il dubbio è se la spada può essere usata per fare del male, sebbene sia benedetta.
– Quale altra funzione dovrebbe avere un’arma secondo te, genio?
– Non saprei. La forza vitale che infonde potrebbe servire ad altro che uccidere. A proposito Volmar, come ti sei sentito quando hai impugnato la spada di legno?
– Non saprei dirtelo, Galahad. Era come se i muscoli del braccio si riempissero di qualcosa che mi permettesse di muoverlo più facilmente, come se la spada fosse leggerissima… inoltre sentivo un richiamo… una voce nella testa che mi diceva di rilassarmi, che sarebbe andato tutto bene se mi fossi lasciato andare e che mi sarei dovuto fidare per sempre del maestro. Era strano… la voce è svanita quando la spada si è spenta e… o mio Dio… come faceva a sapere il nome di mio padre? Non l’avevo mai detto a nessuno!
 
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– Sveglia Volmar, sei ancora intontito da quello che è successo? Hai detto il nome di tuo padre a Hans perché ti registrasse dal censore militare!
– No no non è vero! A Hans ho detto il nome del mio padrino attuale, perché è lui il mio tutore. Mio padre è morto e si chiamava Gherard, proprio quello nominato dal maestro!
Nessuno seppe rispondere. O nessuno osò dire ciò che tutti pensavano. Forse che il maestro avesse la facoltà di scoprire ciò che si cela nella mente delle persone? Pensava Galahad. Be’, questo sì che sarebbe spaventoso.
Si sentì il suono di passi irregolari, proveniente dalla rampa di scale che il generale aveva salito per andare a riposare. Dalla rampa che portava all’ala orientale scese una figura simpatica di ometto vestito in modo bizzarro. Basso e rotondo, era un uomo sulla cinquantina, calvo e rugoso, portava una giacca nera nella parte destra e verdastra nella parte sinistra, pantaloni larghi alle caviglie avevano gli stessi colori ma alternati e portava ai piedi delle calze di lana… rosa! Quaranta occhi sbarrati e divertiti puntarono su di lui, ma non sembrò curarsene. Mentre scendeva la parte di scale visibile ai ragazzi, fu evidente che aveva il passo irregolare perché era zoppo, tuttavia non sembrava faticare, la qual cosa era ancora più sorprendente se si considera che era rapidissimo.
Senza presentarsi e senza dire una parola, andò a posizionarsi proprio in fronte a Quintus, il più vicino alla scala. Senza dubbio Quintus lo sovrastava di almeno tre spanne, era come un gigante davanti ad un bimbo. Solo che il bimbo aveva la barba e le rughe. Molte rughe.
Osservandolo incuriosito, Quintus chinò la testa per fissare negli occhi quell’uomo che a sua volta alzava lo sguardo su di lui… uno sguardo minaccioso. Il ragazzo aprì bocca, o almeno ci provò. Fu un attimo; un potente montante gli chiuse la bocca con un sonoro schiocco che gli fece mordere la lingua, poi una piccola calza rosa si alzò e ricadde con forza sul piede destro di Quintus, che se lo portò subito fra le mani saltando indietro per evitare un secondo pugno che volò proprio davanti al suo ventre, per poi rovinare a terra sul tappeto con una smorfia di dolore sul volto. Merc e Lojan erano i due più vicini e si affrettarono a bloccare il vecchio tenendolo per entrambe le braccia, ma quello calciava e cercava di liberarsi lanciando sguardi d fuoco ai due e a tutti i presenti.
Quintus si era intanto rialzato, furente.
– Figlio di uh cane! Pezzo di merda! Ti ammazzo, ti ammazzo! Figlio di una cagna, ti uccido con le mie mani! Tenetemelo fermo ragazzi, ti spezzo e ti mangio, nano di merda!
– Aspetta Quin. Calmati. Siamo a casa del maestro e dobbiamo rigare dritto altrimenti non ci insegnerà più! – disse Primus, ostacolandolo col proprio corpo. Oltre ad essere più alto e più grande del fratello, sembrava avere anche più sale in zucca.
– Stai fermo, diavolo d’un nano, dannazione! – esclamò Lojan – Tifone, vieni ad aiutarmi!
– Ti ammazzo nanerottolo! Hai capito? Ti uccido! – Quintus puntava il dito sull’ometto da dietro la spalla del fratello.
– Zitto, Quin, accidenti a te! – Batan si rivolse poi al losco figuro dall’abito bizzarro – ehm… come ti chiami e perché hai fatto del male al nostro amico?
Ma Tifone non gli dette il tempo di dire alcunché. Un potente gancio destro sul volto ed una ginocchiata allo stomaco fecero gemere l’uomo di dolore. Tifone fu poi assalito dal resto dei sui compagni per impedirgli di infierire. Si dimenava ancor più dell’ometto!
– Lasciatemi! Io gli stacco il collo a quello lì! Ma chi è? Chi si crede di essere? Non può trattare così i miei amici!
– Tifone sei un idiota! Vuoi stare fermo, accidenti? Stai calmo o ti mando nei mondo dei sogni, guarda che lo faccio! Lo giuro su ciò che ho di più sacro!
– Ti strappo il cuore a morsi Tifone se lo fai di nuovo! – si adirò Joys.
– Galahad si sentì in dovere di intervenire. La vicenda stava degenerando in rissa.
– Bravo Volmy tienilo fermo. E ora calmi tutti ragazzi, per piacere – fece cenno a Merc e Lojan di lasciare quello strano uomo – sono sicuro che non tenterà di attaccarci di nuovo. Lasciamolo parlare ragazzi, per piacere. Vediamo cosa vuole.
Tenendosi la pancia e strizzando gli occhi per il dolore, l’uomo non parlò, ma anzi esclamò in un urlo soffocato.
– Sittiii!! Sitti!! Basta parlare, il padrone dorme! Sento il voce vostro da cucina!
Inizialmente sorpresi che quel nano non sapesse parlare correttamente la loro lingua, le reclute si resero conto poi del significato delle sue parole. Sebbene l’atrio fosse relativamente vasto, non era detto che lo fosse anche il resto della residenza e il generale poteva benissimo essere nella stanza a fianco, per quel che ne sapevano. Se così fosse stato, egli sarebbe di sicuro stato svegliato dal loro schiamazzare. Da quel momento nessuno osò alzare la voce e parlarono tutti a bassa voce.
– Hai ragione, scusaci. Ma non era necessario colpire il nostro amico! Chi sei tu?
– Mi chiamo Sunon Ruan. E voi stupidi, stupidi, stupidi! Noi andiamo ora in un camera lontano da padrone!
Come se non avesse mai ricevuto nemmeno un buffetto, si ricompose e corse zoppicando verso la scala opposta a quella da cui è sceso, senza fare il minimo rumore. Ecco perché aveva delle calze ai piedi!
Confusi e incuriositi, i ragazzi si guardarono come per trovare un parere l’uno sul viso dell’altro.
– Ma questo tizio fa sul serio?
– Sembra di sì. Io voglio ammazzarlo comunque. Diavolo di un nano! – Quintus suonava minaccioso anche quando abbassava la voce.
– E’ inutile restare qui a non far niente, tanto vale seguirlo e visitare la casa.
– Giusto. E poi sono stanco di stare in piedi.
– Peccato che il folletto rompi-mascella è già scappato!
– Vorrà dire che lo cercheremo. Forza, andiamo.
La scalinata portava al primo piano dell’ala occidentale. Un vasto corridoio luminoso si estendeva davanti all’ultimo gradino della rampa; esso portava verso nord e dalle vetrate alla destra filtrava una calda luce mattutina che dava un po’ di sollievo alle ossa. Sulla sinistra invece c’era una serie di porte e portoni a uno o due battenti, tutte dello stesso colore bianco, mentre le pareti erano tappezzate di quadri dei più svariati tipi: dai ritratti a quelli paesaggistici, dai martìri alle Passioni, dagli storici alle epopee; sicuramente Ensifer non disdegnava la bellezza dell’arte figurativa, pensò Gal.
Il corridoio terminava in un ampio portone diverso dagli altri presenti sul medesimo piano. Alto e largo, presentava una forma ogivale allargata e ad entrambe le ante erano fissati dei battenti rotondi incardinati nella bocca di una testa di leone di ferro.
Il portone era semiaperto. Non era un ingresso molto invitante.
 
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Galahad, il primo della fila, non si dette pena di usare i batacchi, ma si limitò a spingere l’imposta quel tanto che bastava per sbirciare dentro il locale. Centinaia o forse migliaia di libri su enormi scaffali riempivano e deliziavano la vista ovunque la si volgesse. Volumi di ogni grandezza e tipo di rilegatura giacevano su una serie di ripiani che raggiungevano il soffitto, lunghe corsie si snodavano in ogni direzione dentro un locale che era chiaramente la biblioteca personale del generale. Entrarono tutti, dal primo all’ultimo, per ammirare cotanta ricchezza libraria; si divisero in gruppi per esplorare il luogo ma, sebbene avessero preso tutti direzioni diverse, dopo qualche minuto si ritrovarono tutti in quello che poteva essere chiamato il centro di lettura e studi della biblioteca. Magnifici tavoli di noce, di faggio, di ferro battuto e ricoperti da lastre di vetro, riempivano l’immenso spazio centrale; alla loro destra un’enorme finestrone dava su un terrazzo da cui si poteva ammirare il giardino interno e il campo di addestramento, mentre alla loro sinistra una statua marmorea di un filosofo del passato teneva nella mano sinistra un libro aperto e nella destra una penna d’oca. Ma ovviamente, nella zona lettura non potevano esserci solamente dei tavoli, ma anche delle…
– Sedie! Evviva! A parte quando ci siamo seduti sull’erba con Ensifer, è la prima volta che mi rilasso da quando ci siamo svegliati all’alba – Joys si sedette ed emise un risolino di piacere – oh oh sì! Così mi piace! Oh si bella, vai così, non ti fermare! Fammi rilassare come solo tu sai fare! Oh sì!
– Dacci un taglio Joys, potrebbe sentirti qualcuno e pensare male!
– Chi a parte noi, Gal?
– Ogni biblioteca ha il suo bibliotecario – si intromise Batan, che intanto si era seduto su di una panchina laterale accavallando le gambe – e fatico a credere che sia Sunon Ruan. Insomma… non puoi amministrare una biblioteca se sei analfabeta.
– Infatti sono io a gestire la biblioteca! Ed è vietato fare sesso qui!
La voce provenne da qualche parte nella foresta di scaffali e libri nella metà che i ragazzi non avevano ancora esplorato. Galahad trafisse Joys con lo sguardo rovente.
– Che c’è Gal? Vuoi strapparmi il cuore a morsi?
– Arrivo eh? Arrivo, datemi solo un momento! Intanto ditemi, chi siete? Siate comunque i benvenuti.
Cercando di capire da quale direzione provenisse la voce del bibliotecario, Volmar rispose – Siamo degli…
– Oh sì! Siete voi, ovvio che siete voi! Non muovetevi da lì, arrivo subito!
Si avvertiva il cambio di direzione del suono mentre parlava.
– E chi si muove? Questo posto è bellissimo. E comodissimo – esclamò Lojan.
– Ti piace eh? Questa è la biblioteca più vasta della città, più grande persino di quella del re o dell’accademia! Io ci sono stato e fidati, non sono nemmeno paragonabili a quella del generale Anark! Ma dove… ah ecco! Ho trovato il libro che cercavo, adesso arrivo da voi!
– Faccia con calma, non abbiamo fretta! Ma ci dica… nell’atrio abbiamo incontrato strano individuo basso dall’aria minacciosa di nome Sunon Ruan, sa dirci chi è? – chiese Batan.
– Oh certo che lo so dire!
Batan attese pazientemente una risposta che non arrivò.
– Potrebbe quindi dircelo, per piacere?
– Ma certo che posso, figliolo! – sembrava che si allontanasse anziché avvicinarsi. Lo si udiva a malapena.
– Ce lo dica allora! – sbottò l’allievo spazientito.
– Oh sì... umm… conosco solo una persona in questo palazzo che sia bassa e aggressiva ed il suo nome è Sunon.
– A dire il vero questo già lo…
– Scusami, tendo a dimenticare le cose! Umm.. oh sì! Sunon è l’assaggiatore, l’aiuto cuoco, l’aiuto bibliotecario, il domestico, il servo, il sarto e il guardiano della residenza. Sinceramente non l’ho mai visto svolgere uno solo di questi lavori, ma penso si possa definire un tuttofare ¬– si udì il rumore di qualcosa di pesante cadere e il bibliotecario bofonchiare qualche imprecazione – è tutto a posto, piccola, non ti preoccupare.
– Senta signor bibliotecario, con quale nome dovremmo chiamarla noi, invece? – chiese Primus.
– Oh il mio nome! Scusatemi, tendo a dimenticare le cose, sono vecchio io! Mi chiamo Hartimoltan Barashare. Ma il generale mi chiama Harti, e così potete fare anche voi se volete. Basta che non mi chiamate Harti-marziali o Harti-molta-bara… quanto odio quei soprannomi stupidi! Anche tu li odi, vero piccolina? – sembrava si avvicinasse finalmente alla zona lettura. Ma con chi stava parlando?
– D’accordo Harti. Dunque sei tu che hai mandato Sunon a chiamarci?
– Oh no, dev’essere stata la governante. Lei non ama molto parlare con gli uomini, eccezione fatta per il generale. Manda sempre qualcun altro ad accogliere gli ospiti maschi, mentre con le donne non la smette mai di spettegolare tutto il santo giorno. Io le sento benissimo, questa biblioteca è talmente silenziosa che potrei sentire anche il più debole dei sospiri. Il problema è che mi dimentico quello che sento.
– Ci dispiace per aver parlato a voce alta, nell’atrio. Non era nostra intenzione disturbare – si scusò per tutti Galahad.
– Non darti pena figliolo, ho già dimenticato tutto!
Dio solo sa se stesse parlando sul serio.
– Oh ecco ecco! Sto venendo da voi!
Harti sbucò da dietro un cunicolo di scaffali alla destra, vicino al terrazzo, e tutti coloro che erano seduti nei pressi si drizzarono in piedi ed indietreggiarono non appena lo videro. Un uomo sui quaranta, di media statura, barba e capelli lunghi e neri con qualche spruzzo di grigio qua e là; indossava una semplice maglia di lana nera dal colletto alto e brache larghe, strette alle caviglie da alti stivali a tacco basso in pelle. Ma Harti indossava qualcos’altro. Un grosso e lungo serpente nero come la pece si accoccolava attorno alle sue spalle e ai suoi fianchi mentre con la testa strisciava contro il suo petto. Si trattava di un esemplare di pitone dell’est, con una testa enorme, denti uncinati e pupilla verticale.
– Tranquilli, non vi farà niente. E’ una timidona! Vero cucciola? Non vi farà niente, non vi preoccupate non è velenosa.
– Non voglio nemmeno sapere di cosa si nutre quella… cosa!
– Harti dove diavolo hai preso quel serpente?
– Non ne avevo mai visto uno dal vivo.
– Forse intendevi dire da vivo, Kenlo.
– Stammi lontano Harti e vedrai che è meglio per tutti, per piacere! – cercare di non tremare era difficile per molti, specialmente per Merc. Galahad invece non si sentiva minacciato dal serpente. Se ad Harti non succede niente, perché mai dovrebbe succedere qualcosa a me o a qualcuno dei miei compagni? Pensò.
– Non mi avvicinerò, tranquillo… ah ma allora è così che siete! Vi immaginavo più… com’è che vi immaginavo? Non me lo ricordo.
– Harti non è che potresti dirci qualcosa sul maestro Ensifer? Siamo curiosi di sapere tutto su di lui. Se non è troppo disturbo per te, ovviamente – Joys si chiese se l’ultima frase avesse senso. Come si fa a disturbare uno che sta da solo e che non fa mai niente in un posto come questo?
– Niente affatto, ragazzo! Sono molte le cose che mi dimentico, ma di sicuro riguardo ad Ensifer Anark non mi dimentico mai nulla! E chi meglio di me può raccontarvi di lui? Ho vissuto con lui praticamente metà della mia vita! Però sarà meglio spostarci nella biblioteca al secondo piano, là saremo più a nostro agio.
– Secondo piano? Ma quanti piani ha questa benedetta biblioteca? ¬– chiese sbigottito Joys.
– Quattro per l’esattezza. La zona principale di consultazione si divide in due parti fra primo e secondo piano, mentre i codici antichi e testi rari sono custoditi al pian terreno in una stanza di cui solo io ed il padrone abbiamo la chiave. In più, sottoterra, esiste una cripta a cui si accede da un passaggio segreto di cui solo il generale è a conoscenza, ed è lì che conserva i libri e gli oggetti più preziosi.
– Dio santissimo! Ma allora non scherzavi quando hai detto che questa è la biblioteca più grande della città!
– Ah sì? L’ho detto? Umm… me lo sono dimenticato! – rispose Harti sorridendo.
Mentre i novizi cavalieri neri seguivano Hartimoltan e il suo grosso pitone nero attraverso cunicoli di scaffali impervi, Galahad non poté fare a meno di chiedersi che razza di bibliotecario fosse una persona smemorata come Harti.
L’uomo si fermò poi e si voltò di scatto.
– Aspettate un attimo, dove stiamo andando?
Allibiti e sconcertati da quella domanda, gli allievi si guardarono l’un l’altro, ma non fecero in tempo a rispondere che Harti riprese a parlare.
– Ma è ovvio, al piano superiore! Ve l’ho fatta eh? Ci siete cascati! – e rise riprendendo a guidare la fila attraverso le gallerie di libri.
Anche i ragazzi risero.
Non era uno scherzo molto divertente.
Ma risero.

Fine capitolo 5
 
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Un filino occupato in game e all'università in questi giorni. Prometto di tornarci non appena possibile ;)
 

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Capitolo 6: Energia mentale

Giù nel lago, a migliaia di metri di distanza da Hans, un favoloso gioco di luci esaltava l’amenità dello specchio d’acqua. Anatre selvatiche solcavano tranquille le tiepide acque descrivendo lunghe scie dietro di loro, folaghe lacustri volteggiavano e aironi magnifici facevano la loro comparsa sulla riva, pronti a spiccare il volo in cerca di alborelle e gobioni lacustri con cui nutrire i piccoli nel nido. Il lago di Grothier non sembrava aver passato una notte di tempesta; ad eccezione dei rami finiti sulla ghiaia e la mancanza di tende di pescatori dei villaggi vicini, il lago era l’immagine della calma e della routine inviolata.
Non si poteva dire lo stesso dei compagni alle sue spalle. Sette esploratori erano partiti con lui il giorno prima, di notte, dopo aver salutato Galahad e i suoi amici, ma uno era morto poche ore dopo cadendo da cavallo, salendo il versante occidentale della collina su cui si trovavano ora, mentre si era accorto della scomparsa di un altro quando ormai si trovava sulla cima. Erano dunque rimasti in sei a perlustrare la zona in prossimità della città di Cathsbat. La boscaglia si estendeva a perdita d’occhio, il territorio era particolarmente idoneo allo sviluppo economico ed edilizio degli insediamenti abitati di quella regione, data l’abbondanza di legna e di ghiaia, e molto probabilmente avrebbero visto centinaia di cave e taglialegna sulla loro strada verso le mura della città nemica.
Brucia il ponte dietro di te, oh sì
Non lasciare alcun rimpianto, oh no!
Oh oh ooo, ah ah aaa,
Oh oh ooo, ah ah aaa…
Di via verso casa ce n’è solo una,
Oh oh ooo, ah ah aaa…

Non c’era spazio per il compianto durante una missione. Non c’era spazio per la pietà durante le operazioni di spionaggio. Il canto degli uomini alle sue spalle ne era la dimostrazione. Un esploratore deve avere il cuore duro, la morte dei compagni di armi non deve influenzare in alcun modo l’esito dell’esplorazione. L’addestramento militare per i “cavalieri bianchi” non era particolarmente arduo, ma la parte difficile la si doveva sopportare sul campo, in missione; il compimento della missione aveva la priorità su qualunque cosa. I morti possono aspettare, i vivi no. Trattenere le lacrime per la morte di Quoyd e Lotrad era fra le cose più difficili che dovesse fare quel giorno; carpire le informazioni sull’esercito di Cathsbat era la più difficile.
…C’è così tanta tristezza,
Nelle parole vuote,
Oh oh ooo, ah ah aaa,
Oh oh ooo, ah ah aaa,
Il silenzio è una pietra così pesante,
Oh oh ooo, ah ah aaa

I bagliori del lago che rifletteva la luce del sole di mezzodì si estendevano in tutte le direzioni, colpivano i fianchi della collina e la boscaglia in egual modo, ma il luccichio che Hans aveva intravisto fra gli alberi era insolito, fugace ma intenso. Forse un taglialegna? Si chiese Hans. Altri scintillii seguirono il primo con frequenza sempre maggiore. No, era un manipolo di cavalleria. Il suono degli zoccoli era attutito dal fitto sottobosco, ma dopo qualche minuto le criniere e gli elmetti furono visibili.
Hans fece segno ai suoi di sdraiarsi di fianco a lui e guardare oltre il pendio. Centinaia di cavalli marroni uscivano dalla foresta per dirigersi verso la riva, montati da altrettanti cavalieri in cotta di maglia scintillante.
– Avanguardia? – fece uno alla sua destra.
– Può darsi. Far riposare i cavalli quando non sono che ad un miglio da casa? Devono essere le truppe di assalto che aspettano l’arrivo della retroguardia – fece un altro alla sinistra.
– Quel tipo di baio… non l’avevo mai visto di quel colore. Sembrano meno resistenti dei nostri, ma con tutta probabilità anche più veloci – fece notare Hans.
– Non lo metto in dubbio. E penso che non sia finita qui. Intravedo altri arrivare. Guardate! Un altro manipolo arriva da Cathsbat.
Guardarono nella direzione indicata ed effettivamente scorsero altri soldati unirsi a quelli già presenti al lago. Intanto i primi erano smontati e si erano radunati intorno al loro capitano.
– L’avanguardia è numerosa, ma non vedo traccia di avanscoperta. Ce ne devono essere per forza.
– Devono essere partiti al contempo da Cathsbat in direzioni diverse per ricongiungersi con il grosso delle truppe presso questo lago.
– Sì deve essere così. Siamo in sei e l’avanscoperta non deve essere composta di più di due o tre elementi per gruppo. Possiamo farcela.
– Certo che possiamo, la miseria!
– Intercettarli non sarà facile. Dobbiamo coprire almeno tre lati del lago, faremo tre gruppi da due ciascuno. Cercate di farvi dire tutto quello che sanno e uccideteli. Se avete successo procedete verso casa senza mai voltarvi indietro. Questi sono dei gran bastardi, sento che ci manderanno contro tutti gli arcieri di cui dispongono se non vedono le pattuglie tornare.
– Dannazione! Quoyd era un bravo battitore… avrebbe scovato quei barbari ovunque fossero. Non meritava di morire così.
– Non pensarci. Pace all’anima sua. Concludiamo la missione in onore dei nostri due sfortunati compagni. Andiamo! Dio sia con voi.


Un gradino dopo l’altro, il gruppo degli allievi guidati da Harti giunse al secondo piano della residenza del generale Anark. La scala a chiocciola, tortuosa e stretta, ingannava il visitatore deludendolo con l’aspettativa di un locale angusto alla fine del percorso, mentre invece lo sorprendeva con un repentino cambiamento di volume. Un unico, immenso locale attendeva il gruppo dietro ad una semplice porta di ferro battuto. Come fosse possibile costruire scaffali così alti e ripiani così resistenti al peso dei libri, questo era un mistero per i ragazzi. Ma le strutture e le forme che avevano davanti agli occhi non erano un miraggio. Erano il frutto di conoscenze artistiche e architettoniche che con molta probabilità erano gelosamente conservate nei libri che quei ripiani stessi sorreggevano e proteggevano.
Harti, da bravo anfitrione, guidava e dava un nome a ciò che era sconosciuto alla vista degli allievi del paladino. Ma questi non erano più attenti a quello che diceva. Il secondo piano era talmente diverso dal primo! Oh se lo era! Dire che quel posto fosse una biblioteca sarebbe stato tanto inappropriato quanto riduttivo.
Dalle magnifiche volute in cima alle lesene parietali pendevano fiumi di seta colorata che si univano e disgiungevano in un tripudio danzante, quasi che la stoffa fosse animata di vita propria; le serliane ai lati del locali riempivano lo spazio al di sotto della seta e davano una scansione ritmata al passaggio del visitatore, dando inoltre un senso di protezione e accoglienza dovuto agli enormi archi che le sovrastavano. Le ogive erano anche qui numerose e ricorrevano sia alle finestre che alle vetrate, per non parlare delle incisioni su pareti e tavoli. Innumerevoli lampade a olio calavano da un soffitto vertiginosamente alto, tanto che quel piano da solo ne comprendeva almeno due in altezza. Il senso di conforto e tranquillità non sarebbe stato talmente forte se non fosse stato per i magnifici dipinti e affreschi che beavano gli occhi ovunque si guardasse, con un unico tema e un unico scopo: l’acqua e la flora, non vi erano sedativi migliori all’animo di chi era triste o in pena. Cascate spumose, dipinte o cesellate, allietavano il cammino verso il corridoio centrale; a queste si contrapponevano con armonia cascate di giunchiglie e garofani che pendevano dai bassi luminari come fossero dolci e leggeri diluvi, mentre vasi di ogni tipo e forma riversavano sul tappeto e sulle mattonelle irregolari le più profumate rose da campo. Immersi in un siffatto decoro a tema, i libri e gli scaffali di legno e di ferro trovavano il loro posto nella natura, dal momento che sembravano salire su dal pavimento come fossero alberi millenari.
Come dei bambini, le reclute mostravano l’un l’altro ciò che scoprivano, le cose interessanti da vedere, chiamandosi a vicenda ed indicando con il dito, ognuno fiero di aver mostrato ai compagni ciò che avrebbero potuto perdersi se non fosse stato per la propria attenzione ai particolari. Proprio come al piano inferiore, un vasto spazio centrale fungeva da zona studio e lettura, ma era dotato di tavoli più eleganti e al posto delle sedie di legno vi erano delle confortevoli poltrone imbottite di piuma.
Venti sorridenti persone si ritrovarono e si sedettero insieme ai tavoli, ma di Harti non vi era traccia.
– Ma dov’è finito?
– E che ne so? Era qui fino a un minuto fa.
– Sarà andato alle latrine.
– Ma smettila Pholus!
– Già, scusami. Stavo scherzando, penso invece che il serpente se lo sia mangiato!
– Dio ho una paura matta di quel… coso! Sta’ a vedere che se l’è pappato sul serio?
– Finitela dài. Ah ragazzi, che posto! Vorrei starmene qui tutto il giorno!
– Magari fosse possibile!
– Tu Galahad ti sbaciucchieresti con Harti-marziali se te lo chiedesse il maestro, di’ la verità!
– Smettila di girare il coltello nella piaga, Edwin! Già mi ha schifato anche solo sfiorare il marmo infangato!
– Ah giusto, dimenticavo che non ti è permesso tradire la tua cara cavalla…
– Ti ho detto di finirla!
– Cos’è questo rumore?
 

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– Lo sento anche io, cos’è?
– Mi strappo il cuore a morsi se non è una cetra. Conosco bene il suono che produce, io la so suonare bene.
– Zitto Joys voglio sentirlo bene.
– Stai calmo, non volevo…
– Ti ho detto di star zitto, dannazione!
– Porta rispetto, sono più grande di te !
– Volete smetterla entrambi? Cristo! Siete voi che non fate sentire nessuno di noi! – Galahad quasi si sbellicava dal ridere insieme a tutti gli altri. Kenlo e Joys si fecero piccoli piccoli al rimprovero di Batan, il più anziano di tutti.
Finalmente le parole sortirono il loro effetto e nessuno osò fiatare né ridere. Effettivamente si trattava del dolce canto di una cetra suonata in modo divino da una mano esperta. La melodia da essa prodotta era davvero rilassante; sembrava avere un effetto sedativo nei confronti dell’animo dei giovani, tanto da far loro scordare qualunque problema avessero mai avuto fino a quel giorno. Il suono di pesanti di passi che accompagnava l’arpeggio non era affatto discordante della melodia e anzi ne scandiva il lento ritmo. Sempre più vicina, la cetra passava ora da una semplice fraseggio acuto ad un lento e triste lamento, quasi che il musico infondesse al suo strumento un’anima ed un cuore che batteva all’unisono col suo. Socchiudere gli occhi e bearsi di tale canzone era di gran rilassamento per delle orecchie che non hanno sentito suoni tanto dolci per parecchi mesi.
– E voi chi sareste, di grazia?
Ed eccolo il magnifico compositore. Magnifico nell’esecuzione, ma non altrettanto nell’aspetto. Sbucato dal nulla come un fantasma da dietro gli scaffali in fondo al locale, fece la sua comparsa un individuo basso e smilzo. I ragazzi si voltarono per guardarlo in volto e si stupirono della grande incoerenza fra un suono così amabile ed un aspetto così trasandato e trascurato. L’uomo passò velocemente in rassegna i giovani con lo sguardo dal primo all’ultimo, senza aggiungere altro ed aspettandosi una risposta che non giungeva. I capelli e la barba neri erano talmente lunghi da ricadere sul petto e sfiorare lo strumento che coccolava fra le braccia, uno sporco giustacuore era ben visibile sotto un mantello di un rosso molto scuro, tempestato di pezze multicolore e di macchie di chissà quale vino; a completare il quadro di negligenza erano degli stivali logori e bucati in corrispondenza degli alluci. Ad attirare maggiormente lo sguardo, tuttavia, era un fodero che pendeva al fianco sinistro di quell’individuo.
Questo tizio non ha l’aspetto di una guardia, pensò Galahad.
Loquimini vos linguam meam? ‘Tetkallemo ento al lokha beta’ti?
Incomprensibile e misterioso, l’uomo cominciava ora a portare la mano destra al fodero reggendo la cetra con la sinistra. Ma ancora non aveva impugnato l’elsa. Si accorsero tutti del movimento e, intimoriti si alzarono dalle panche e dalle sedie per poi indietreggiare ed alzare le mani. Dov’era finito Harti? Il flusso di pensieri nella testa di Gal fu interrotto dal compagno Primus.
– Tu piuttosto chi sei? E perché sei armato? – lo sguardo era fermo e una mano lesta era pronta a scagliare una statuina di ferro già impugnata dietro la schiena. Scaltro.
– Ah ma allora non siete stranieri. Non starebbe al sottoscritto presentarsi per primo, ma faremo un eccezione per questa volta. Mi chiamo Havlock Ghatus e sono… il bibliotecario della residenza. La spada è solo uno strumento di difesa. E spero vivamente di non usarla in questo momento. Con chi ho l’onore di rivolgermi?
Due bibliotecari? Cielo, perché Harti li aveva lasciti senza una parola?
– Noi siamo… – la risposta di Gal fu interrotta da Primus.
– Quanti bibliotecari ci sono in questo palazzo?
– Solo uno. Non risponderò ad altre domande se non mi direte prima chi siete e cosa ci fate qui – il tizio cominciava a scaldarsi. Così come Primus. Un solo bibliotecario, dunque era un impostore. Il suo pensiero rispecchiava il pensiero di tutti: colui che avevano davanti era un ladro e mentiva spudoratamente. Bisognava disarmarlo e consegnarlo alle guardie.
Lo scatto di Primus fu fulmineo e la rabbia che lo pervadeva lo rese ancor più rapido. In una frazione di secondo la statuina venne scagliata a gran velocità dal braccio della recluta, mentre al contempo mezza dozzina di allievi si lanciavano contro Havlock per bloccarlo e privarlo della spada.
L’uomo non si mosse né accennò alcun movimento di evasione. Il pesante pezzo di ferro centrò il suo volto in pieno producendo uno stranissimo suono metallico, come se ad essere colpito non fosse un osso, bensì una lastra di marmo. Havlock risentì tuttavia del colpo e rovinò a terra sul tappeto di lino rosso, portandosi le mani al volto. Non fece in tempo a proferire parola, né tantomeno urlare dal dolore, che subito fu investito da una valanga umana. Kenlo, Batan, Volmar (che tanto leggero non era!) ed Edwin piombarono su di lui bloccando i suoi movimenti e intrappolandolo al pavimento, mentre Tifone estraeva la spada dal fodero che spuntava da sotto un piede di Kenlo.
Dimenarsi era inutile per il malcapitato, i quattro giovani su di lui lo soffocavano e non gli permettevano alcun movimento del corpo, ma si rassegnò ben presto e smise di agitarsi.
– Cosa ne hai fatto di Harti, lurido bastardo?! – Edwin era incontrollabile.
– Ti strappo il cuore a morsi se non rispondi, diavolo d’un ladro! – Joys lo era ancor meno – Rispondi!
– Io non sono un ladro dannazione! E Harti deve essere in cucina in questo momento, non gli ho torto un capello! – non sembrava affatto disperato e la sua voce era ferma sebbene fosse stato investito da una frana vivente.
– Bugiardo!
– Gal vai a chiamare le guardie – per Batan era meglio assicurare il malfattore a chi di competenza.
– E io vado a cercare Harti, non ci credo che sia in cucina, deve essere ancora nei paraggi – si espresse con calore Quintus. Sebbene lo conoscessero da poco, quel simpatico bibliotecario aveva conquistato i loro cuori con la sua simpatia e ancor più con la sua sbadataggine.
Senza pensarci su due volte, il caracarniano annuì deciso e si diresse di gran carriera verso la porta di ferro battuto, tallonato da Quintus.
Harti in persona bloccò loro la strada, risalendo la scala dalla quale erano passati poco tempo prima. Il serpente era scomparso chissà dove, ma per il resto non sembrava essergli accaduto nulla di male e, anzi, teneva in mano un vassoio d’argento che sosteneva una caraffa ed un calice pieni di vino!
– Harti! Ma cosa..?
– Cos’è tutto questo baccano? Come fai a conoscere il mio nome? E voi chi siete?
Non poteva essere. Si era già dimenticato di loro. Stava scherzando di nuovo, vero?
Galahad lo prese per le spalle e lo scosse lievemente nel tentativo di fargli ricordare il loro incontro.
– Harti siamo noi, maledizione! Ci hai incontrato poco fa al primo piano della biblioteca, tu e il tuo serpente nero!
Intanto, gli altri ragazzi al centro della libreria udivano tutto, delusi da quello che sembrava un altro attacco di amnesia. Lo sguardo vacuo ed inebetito di Harti ne era la conferma. Socchiudeva la bocca cercando di dire qualcosa, ma non riusciva. Evidentemente cercava di ricordare ciò che nella sua testa non esisteva più.
– Oh, Dio! Poco importa ora, sappi solo che siamo tuoi amici. Per fortuna stai bene e non…
Ma Gal fu interrotto dall’urlo disperato del ladro, che in un impeto di foga e approfittando della disattenzione dei macigni che aveva addosso, si liberò e si alzò da terra quanto bastava per farsi vedere da Harti. I quattro ragazzi che lo tenevano furono scaraventati con forza inaudita a gambe all’aria, ma Pholus, Lojan e Merc presero il loro posto e si gettarono di nuovo sul delinquente. Harti guardò oltre la spalla di Galahad e finalmente si accorse di quanto succedeva.
– Oh no! Havlock! Cosa state facendo a Havlock! Delinquenti! Guardie! Guardie! – gettò il vassoio addosso a Galahad e non la finiva più di urlare. Le guardie erano troppo lontane per udire il richiamo di Harti, ma di istinto Quintus gli tappò la bocca con la mano mentre Galahad, con la maglia completamente inzuppata di vino, cercava di trattenerlo, sebbene il bibliotecario si dimenasse come un pazzo.
Da quel momento in poi, la confusione regnò sovrana. Urla, imprecazioni e sguardi ardenti di rabbia non erano il peggio.
– Si può sapere cosa hai fatto Harti?! Cosa hai detto a questi ragazzi? Che sono un ladro? Liberatemi!
– Stattene buono qui tu, non ti muoverai finché non sapremo chi sei!
– Sono il bibliotecario, dannazione!
– Havlock aiuto! Fai qualcosa!
– Zitto Harti!
– No lascialo parlare! Che ci spieghi cosa succede! Non ci capisco più niente!
– Io? Io non so niente! Non so nemmeno chi siete!
– Harti, come fai a conoscere Havlock? Si sta spacciando per bibliotecario, mentre invece lo sei tu…
¬– Vi prego non fatemi del male! Io non ho fatto niente! Vi prego! – ad Harti brillarono gli occhi, stava per piangere.
– Harti rispondi alla domanda! Chi è questo tizio?
– Non lo so, non lo conosco! E io non sono il bibliotecario di un bel niente!
– Ma come fai a non conoscerlo? L’hai chiamato per…
– Come? Non sei il bibliotecario?
Il povero smemorato non resse più alla tensione. Un ultimo singulto ed una riga di lacrima, infine perse conoscenza, finendo fra le braccia di Galahad.
Silenzio.
Non si capiva più niente. Chi era chi? Dopo lo svenimento di Harti, si voltarono tutti quanti verso l’uomo a terra. Forse erano stati troppo precipitosi e avevano tratto conclusioni affrettate. Merc, Pholus e Lojan ancora giacevano su Havlock, incerti se dovessero lasciare che si alzasse. Merc, che dei tre era quello che bloccava la testa circondandolo col braccio, avvertì un formicolio al braccio che saliva su dalle dita verso la spalla, quasi che fosse prodotto dall’uomo ai suoi piedi. Ciò che disse poi Havlock fra i denti fu a malapena udibile.
– Ne ho abbastanza.
 
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Con orrore Merc si ritrasse dal corpo di Havlock. Le iridi degli occhi di quell’individuo stavano mutando colore, da castano divennero color mogano e poi, di colpo, di un rosso vermiglio. Un sorriso di superbia comparve su quel volto emaciato. Se ne accorsero pure gli altri due che si fecero da parte, temendo che Havlock fosse infetto da qualche malattia contagiosa. Ma erano completamente fuori strada.
Dopo aver visto una spada avvampare di fuoco vero, e la persona che la brandiva rimanere illesa, i giovani allievi ritenevano che non si sarebbero più meravigliati di fronte a nient’altro al mondo, tuttavia ciò che si manifestò di fronte a loro in quell’istante superò di gran lunga la spada di Ullrich.
Il corpo di Havlock Ghatus si levò da terra con lentezza, in posizione orizzontale, senza l’ausilio di alcun sostegno, si inclinò poi in posizione eretta per poi ricadere con grazia e leggerezza sulle punte degli stivali bendati. I suoi occhi erano ancora rossi, ma non iniettati di sangue. Lo sguardo era fermo, proprio come lo era quando si era presentato. Guardava tutti coloro che aveva di fronte, uno ad uno, strizzando gli occhi, evidentemente nel tentativo di identificarli. La paura che aveva suscitato sarebbe durata per tutto il tempo che i suoi occhi fossero rimasti del colore del sangue.
Il suo sguardo cadde poi sui pezzi di legno di betulla fra i suoi piedi. La sua cetra. Distrutta. Si inchinò posando le natiche sui calcagni, ne raccolse un pezzo, un secondo, un terzo, poi una corda, ma era inutile, non poteva essere riparata. Senza levare gli occhi da ciò che era il suo strumento, si rivolse ai venti ragazzi. Le parole graffiavano come lame affilate sebbene pronunciate con calma ed autocontrollo.
– Un malfattore… che si aggira per la residenza del generale Anark… suonando una cetra nell’unico posto del maniero in cui un rapinatore non cercherebbe mai?
Una domanda retorica che faceva crollare tutti i sospetti che avevano avuto su di lui. Furono pervasi dalla costernazione più mesta. Le scuse però non vennero pronunciate, tanto erano paralizzati dal modo in cui Havlock si era alzato da terra. Dio, è levitato in aria! Questo tizio è un… mago! Pensò Gal.
Havlock prese poi in mano la statuina di ferro accanto ai frammenti di legno, proprio quella che lo aveva colpito in fronte.
– “La rinascita dell’eroe” di Nyon Neyon. Non è fra le opere più riuscite del mio amico scultore, ma il livello di tutti i suoi prodotti non si abbassa mai sotto quello di “bello” – girò fra le mani il pezzo di metallo raffigurante un mostro marino che spuntava fuori dalle acque con le fauci spalancate ed un lanciere che conficcava la sua picca nella gola della creatura. Picca che era ormai deformata e mancante del manico.
Si volse poi verso Primus, l’autore di quel danno.
– Ottima mira, ragazzo. La prossima volta però lancia un volgare ciòttolo, e non un pezzo d’arte.
Galahad, così come tutti gli altri, non credeva ai suoi occhi. Il viso di Havlock, sebbene imperlato di sudore, non presentava alcuna traccia di ferite. Pensava che un colpo come quello infertogli da Primus avrebbe dovuto almeno farlo sanguinare!
Gli occhi di quell’uomo tornarono poi al colore originale e si alzò in piedi, questa volta come una persona normale, ergendosi sulle esili gambe.
– Il mio nome è Havlock Ghatus. Ho l’onore di servire il generale nella sua prestigiosa biblioteca come custode degli annali e dei manoscritti più rari, nonché come guida del maniero e, prima che la mia bella cetra venisse distrutta, come musico. Dopo che avremo curato quel combina guai di Harti, voi vi presenterete uno ad uno.
E non era una domanda.


Sassolini lordati di fanghiglia entrarono nella bocca di Hans dopo essere stato scaraventato faccia a terra da un pugno poderoso. Il petto e le gambe, prive di armatura solida, strisciarono sulle pietre lacerando quegli indumenti che gli offrivano l’unica protezione, a parte il caschetto scintillante. La daga non era più in suo possesso. Gli era scivolata dalle mani prima ancora di ritrovarsi per terra sulla riva meridionale del fiume che si immetteva nel lago Grothier, ed ora giaceva lì davanti a lui, sotto lo stivale del suo aggressore.
Donox, il suo compagno, era stato ucciso, mentre lui era in fin di vita. Gli avversari erano inizialmente due, ma dopo aver ingaggiato lo scontro, un altro si aggiunse a loro, risalendo una via laterale dalla foresta, rendendo la lotta impari. Prima di esalare l’ultimo respiro Donox aveva messo fuori combattimento uno degli energumeni facenti parte del gruppo di pattuglia nemico. Ma ora erano in due su di Hans e la fine sembrava certa.
– Cosa c’è? Vuoi questa? – il bestione, più grosso e giovane di lui, raccolse da terra la daga dell’esploratore e gliela agitò davanti agli occhi, mentre l’altro sogghignava sadicamente.
Hans sputò le pietruzze che gli erano finite fra i denti, guardò in alto verso il volto del suo nemico, o almeno cercò di farlo. Era da poco passato mezzodì e i raggi del sole, più accecanti che mai, colpivano la terra a perpendicolo; il rivolo di sangue che scendeva dalle tempie raggiunse l’occhio destro, facendolo desistere dal proposito di osservare la prossima azione del suo aggressore. Non poté fare altro che attendere che la morte sopraggiungesse, inesorabilmente. Il suo pensiero andò a Galahad e alla sua occasione di redimersi. Non sarebbe più stato chiamato “reietto di Caracarn”. Molto presto lo avrebbero chiamato “Cavalier Galahad”, membro dei più forti combattenti della città di Platino, addestrati dal paladino in persona. Il sorriso che accennarono le sue labbra all’orgoglio che provava per il nipote, sebbene quasi impercettibile, non sfuggì al guerriero che ora aveva posato la suola degli stivali sul capo del vecchio esploratore. Aniax, il suo bellissimo cavallo bianco, se ne stava tranquillo sorseggiando acqua sulla riva del lago, ignaro di ciò che incombeva sulla testa del suo padrone.
– Allora? La rivuoi? Be’ se è questo che vuoi, allora prendila!
L’urlo di Hans gli si strozzò in gola. Le lacrime non caddero. Il gelo della ghiaia sotto al suo corpo divenne fuoco. Non osò nemmeno voltarsi per guardare inorridito la daga penetrata nella spalla destra. Stringere i denti non gli riuscì pero bene ed esalò un tremendo rantolo di agonia. Ma quel suono fu coperto dalle risate maniacali dei due soldati di Cathsbat.
Non c’era confine alla malvagità umana. La tortura era appena cominciata. Hans non aveva mai torturato nessuno in vita sua. Se il nemico si rifiutava di dare informazioni, lui faceva sì che la sua morte fosse rapida e priva di dolore. Ma ora stava sopportando ciò che aveva pregato di non subire mai.
– Vediamo quanto resisti, vecchio – l’ammasso di muscoli si inginocchiò accanto al suo volto e sussurrò – sai, alla tua età non dovresti andare in giro a ficcare il naso negli affari degli altri. Da dove vieni?
Silenzio. Hans strinse le palpebre e cercò di fissare un’immagine nella sua mente, nel suo essere, quella di sua moglie Hariet. “Per te, amore, devo sopportare per te, tesoro mio, e se Dio vorrà oggi staremo insieme dopo così tanti anni in cui siamo stati separati”.
Quando la daga fu estratta dalla sua spalla, digrignare i denti non fu possibile e il gemito che gli uscì dalla bocca fu assordante. Il sangue ricadeva a fiotti, caldo, sulle selci e i sassolini gelidi. Qualche gabbianella lacustre si librò in volo, spaventata dal lamento eroico del testardo esploratore.
La punta della sua arma si posò poi sulla spalla sinistra, sul tessuto della maglia che si era ormai incollata alla sua schiena a causa del sudore.
– Hai mai provato a mangiare senza usare le braccia? No? Se non vuoi sapere cosa si prova, forse è meglio se mi dici qualcosa. Mi basta un piccolo nome. Qual è il nome del tuo re? Dimmelo e ti lascerò tornare dalla tua famiglia. Tu devi essere un buon padre, hai l’aspetto di una persona molto intelligente. Sono sicuro che adesso mi risponderai, nevvero? – quasi sussurrava al suo orecchio, come una sirena tentatrice.
Hans non pensava che avrebbe retto ad un'altra pugnalata. Cominciava già a perdere la sensibilità del braccio destro e la vista era annebbiata. In testa, ora, regnavano solo il dolore e la paura. Non c’era più spazio per la razionalità. Ma neanche per il tradimento. L’accettazione del proprio destino era ormai completa. Raccogliendo gli ultimi barlumi di forza che gli rimanevano, sputacchiò sullo stivale proprio di fronte ai suoi occhi ed urlò.
– Mai!
Schizzi di sangue imbrattarono il volto di Hans Burstbreath, ma non il suo sangue. Riuscì a malapena a vedere l’uomo di fronte a sé cadere a terra supino con un tonfo sulla ghiaia, sollevando polvere e sassolini dappertutto. Lo stesso suono, seguito da un orribile rantolo di agonia gli fecero capire che la stessa sorte era toccata al suo compagno. Hans era ancora frastornato, oltre che nella sofferenza peggiore che avesse mai patito, ma i sensi ancora lo sostenevano e gli impedivano di abbandonare la realtà. Seguì il suono di passi nella ghiaia; un individuo dalla carnagione chiara e del corpo possente estrasse dal petto del secondo malcapitato l’arma con la quale lo aveva ucciso, un’ascia bipenne completamente in metallo, ora per metà ricoperta di fluido vitale. La ripulì alla
 
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buona sugli indumenti del cadavere, la ripose nell’anello alla cinta e si inginocchiò di fianco all’esploratore. Si strappo coi denti una manica della maglia che indossava e la avvolse attorno alla spalla ferita, fermando temporaneamente l’emorragia. Una voce gentile e piena di colore, quasi angelica, inondò le orecchie del vecchio come un dolce eco di un canto musicale. Adesso sì che le lacrime scivolarono giù per le rugose guance.
– Dove la devo portare?
Ciò che sorprese maggiormente Hans fu che a parlargli non era altro che un ragazzo, forse della stessa età di Galahad. La riconoscenza e le lacrime sempre più copiose gli sgorgavano dagli occhi, gli attanagliavano la gola bloccando una risposta che avrebbe voluto dare. L’emozione era tale che sarebbe presto svenuto.
– Su su, non pianga, è tutto finito. Mi serve che lei mi dica in che direzione è casa sua. Dove abita?
Di sollevare il braccio ed indicare verso occidente, non se ne parlava. Riusciva a stento a tenere gli occhi aperti. Ma Hans sapeva benissimo che rimanere lì era pericoloso, presto sarebbero venuti a dar loro la caccia e tornare in città era di fondamentale importanza. Fissando il giovane negli occhi, cercò di dare voce al suo pensiero.
– Cit.. cit.. Pla.. ¬– ma non poté continuare, il giovane gli tappò la bocca con dolcezza.
– Va bene, ho capito. Non si preoccupi. Dovremmo essere lì per l’imbrunire, fortunatamente abbiamo qui tre cavalli. Ma lei mi deve promettere una cosa. Che stringerà i denti e che non mollerà fino alla fine. I suoi famigliari saranno contenti di vederla in vita.
Confortato da quelle parole, Hans non poté fare altro che abbandonarsi alla fatica e chiuse gli occhi.


Proprio come aveva affermato, Havlock risultò essere il vero ed unico direttore della libreria. Quando Harti aveva ripreso i sensi aveva completamente dimenticato tutto quello che era successo prima che svenisse, ma riconobbe Havlock e si rivolse a lui in modo fraterno. Evidentemente si conoscevano da molto tempo.
Dopo mille scuse di mortificazione rivolte al bibliotecario, le venti reclute e, soprattutto, Primus si impegnarono a mettere ordine alla confusione prodotta nella libreria in seguito all’accaduto. Una dozzina rimetteva a posto libri caduti dai sostegni, qualcun altro puliva per terra e raccoglieva fiori strappati; a Gal era toccato il compito di lavare le tavole di legno all’ingresso, dove Harti aveva rovesciato il vino rosso addosso alla sua maglia di lana. L’unica che gli desse qualche forma di protezione contro il freddo dell’inverno. Avrebbe dovuto portare il mantello più spesso fino a che non fosse stata lavata. Havlock aveva spiegato che era stato proprio lui a mandare Harti a prendere qualcosa da bere dalla cucina. Quell’uomo metteva soggezione a Gal e a tutti i suoi compagni di addestramento. Quegli occhi rossi… e il modo in cui si è alzato da terra… per non parlare del suo volto indenne… tutto questo non è naturale, pensò.
Quando ebbero finito di mettere in ordine, si sedettero tutti insieme ad un lungo tavolo rettangolare, proprio come quello della locanda L’arpa del cantastorie, in cui avevano cenato con Hans il giorno prima. Già, Hans! Ma dove era finito? Lo zio di Gal lo aveva lasciato senza dire una parola. Forse che qualcuno lo avesse incaricato di qualche missione improvvisa?
Havlock, a capo tavola, iniziò il discorso.
– Avete paura di me?
La barba e i capelli neri sembravano più lucenti di prima. Gli occhi che prima sembravano tristi e infossati, risplendevano ora di astuzia, intelligenza, audacia. Sembrava tutta un’altra persone. Solamente gli indumenti logori tradivano la negligenza e la povertà. Ma… chi lo sa, forse era un effetto voluto?
Nessuno rispose. E nessuno lo guardava in volto, non più. Ma Havlock cambiò argomento.
– Dunque, voi ragazzi siete le reclute del generale Anark. Avete già visto coi vostri occhi di cosa è capace il maestro, durante la cerimonia del giuramento, è esatto?
– E' esatto, signore. Anche se a dire il vero non abbiamo ancora fatto il giuramento.
– Se il maestro vi permette di chiamarlo per nome, di certo potete chiamare per nome anche me. Chiamami Havlock. Qual è il tuo nome invece, ragazzo?
– Batan Animous, vengo da Caracarn.
– Ah Caracarn. Patria di innumerevoli leggende sulla forza dei suoi abitanti.
– Ma come vede io non sono né muscoloso né forzuto. Anzi, direi il contrario.
– Anche io sono di Caracarn, mi chiamo Galahad Kindheart.
Fissò Gal negli occhi. Splendidi gemme scintillanti che confortavano l'interlocutore con un solo sguardo. Niente a che vedere con gli spaventosi occhi rossi di poco prima.
– Hai un bel nome, Galahad. I tuoi genitori devono essere stati dei sostenitori dei Ferventi durante la guerra civile, non è vero?
– Esatto, lei come... tu come fai a saperlo Havlock?
– Chi meglio di me può saperlo? Leggo libri tutti i giorni. Ho tanti manoscritti di cronaca riguardanti quella sanguinosa guerra. Uno degli eroi della fazione dei Ferventi si chiamava proprio Galahad, e fu grazie a lui che riuscirono a difendere la rocca per tutta la durata dell'assalto dei Trionfanti.
Havlock stava pian piano mettendo i giovani a loro agio. L’uomo che avevano davanti adesso era un uomo completamente diverso da quello di poco prima; erano come il giorno e la notte. Fece una piccola pausa, perché nel frattempo Harti era andato e tornato dalla cucina per riempire nuovamente la brocca di vino ed ora stava posizionando sul tavolo ventuno calici di ottone dopo averli estratti da uno scomparto dell’armadio a fianco.
– Se vi state chiedendo perché teniamo dei bicchieri in una biblioteca, la risposta è semplice. Questo posto è anche la sala ricevimenti, il generale ama mettere i suoi ospiti a loro agio e questa è di sicuro la zona migliore del maniero a tale scopo. Ed ecco anche perché la libreria ha qualcuno che la diriga. La prossima settimana il generale darà un ricevimento ed il re stesso sarà seduto dove siamo seduti noi oggi. I preparativi sono quasi ultimati, dobbiamo solo trovare delle sedie più adatte.
In effetti quel posto era davvero degno di un re. Lo sfarzo non è l’unica cosa che si sposa con la regalità. La semplicità delle forme naturali ideate da Ensifer Anark avrebbero certamente messo gli ospiti nell’atmosfera ideale, così come è stato per le venti reclute.
Quando Harti finì di mescere il vino nelle coppe e scomparve dietro i battenti della porta, Joys prese la parola.
– Havlock, se tu sei il direttore di questo posto… chi è Harti?
Havlock abbassò lo sguardo sull’orlo del calice e rispose tristemente.
– Harti è… Hartimoltan non è altro che un povero disgraziato. Soffre di una malattia senile in stadio avanzato che ha come effetto l’amnesia temporanea di breve durata. E questa si presenta ormai molto spesso. Troppo spesso. L’unica cosa che non dimentica è il suo nome. Tutte le altre cose di cui è a conoscenza invece rimangono nella sua mente, sì, ma in modo confuso, disordinato, instabile. Quando lo avete incontrato, giù da basso, credeva di essere me. Ieri pensava di essere Sarus, il guardiano tuttofare, e trotterellava zoppicando qua e là. Lo scorso mese ha addirittura personificato il generale in persona ed è uscito dal cancello andando per le strade a farsi prendere in giro; da quel giorno ho sempre fatto in modo che le guardie lo tenessero a bada affinchè non combini altri danni… ma oggi ha davvero superato sé stesso.
Sollevò lo sguardo su Primus, il quale arrossì violentemente.
– Ma la malattia ha uno strano effetto collaterale. Non ci crederete, ma quell’uomo ha ben novantadue anni. Sembra che la malattia rallenti l’invecchiamento. Direi che adesso ne dimostra al massima una quarantina. E’ sempre stato un servo fedele e quando ha contratto la malattia il generale non se la sentì di abbandonarlo. Direi che siamo stati fortunati ad avere del vino, e non dell’erba colta dal prato del giardino. Solamente una volta ogni cinque quell’uomo mi porta ciò che gli ho chiesto!
La battuta ebbe il potere di risollevare gli animi. I ragazzi risero e si sentirono più a loro agio; sentirono di potere parlare con Havlock di qualunque cosa.
 
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Il brano che segue e tutti i richiami allo stesso argomento nel corso della trama sono frutto di una mia (ancora non) complicata elaborazione, mai letta da nessuna parte, mai copiata da nessuno, e fra l’altro lo spunto è dalla fisica (noterete più avanti), che nel medioevo non esisteva nemmeno. Tuttavia esisteva lo studio della natura che si basava su esperimenti non completamente scientifici, sebbene gli arabi riprendevano alla lettera la “Physis” di Aristotele. Ma vi ricordo che l’interpretazione è in ambito fantasy oltre che storico, quindi permettetemi di andare avanti introducendo nella storia aspetti che prima dell’era moderna erano solo teoria bella e buona. Ovviamente la componente fantasy non si limiterà solo a questo. Vedrete più avanti molti aspetti magici legati al potere insito nell’Uomo, e quindi non solo alle armi dei paladini. N.d.A.
 
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– Piuttosto, Batan, perché hai affermato di non essere… diciamo… “forte”? Cos’è la forza per te?
Dopo un attimo di riflessione, Batan rispose con cautela.
– Suppongo non sia esattamente ciò che penso, o sbaglio? Altrimenti non mi avresti posto questa domanda.
– Esattamente – disse prontamente l’uomo – io per forza intendo l’insieme di tutta l’energia di cui un uomo è a disposizione, e non unicamente quella muscolare.
Fece una piccola pausa per soppesare l’effetto delle sue parole. La metà del suo pubblico non sembrava capire. L’altra metà invece era sicuro non capissero, a giudicare dallo sguardo interrogativo. Ma era normale.
– Vi starete chiedendo come abbia fatto il mio volto a rimanere indenne, sebbene Primus mi abbia colpito con un pezzo di ferro con gran potenza. Ebbene, quando ho visto la statuina arrivarmi in faccia, sono ricorso per una frazione di secondo ad un tipo di energia diversa da quella fisica: quella mentale. Essa ha permesso l’ispessimento della cute in ogni parte del mio corpo, rendendola resistente alle contusioni… come se fossi fatto di metallo. Non conosco esattamente l’alchimia di questo processo straordinario, ma penso che si tratti di un’elaborata sequenza di impulsi nervosi innescata grazie all’abbondante dispendio di energia mentale.
Le parole ebbero l’effetto opposto a quello suscitato poco prima. Molti cominciarono a parlare fra di loro, chi sottovoce, chi apertamente senza paura, altri si rivolsero direttamente ad Havlock chiedendo spiegazioni più alla loro portata, data la loro sete di sapere. E fra questi vi era anche Galahad. Quello era il secondo avvenimento straordinario della giornata. A quanti altri fenomeni soprannaturali avrebbero dovuto assistere ancora?
Dopo aver calmato con le mani il vociare dei giovani, curiosi di sapere tutto sull’argomento, tanto che qualcuno si era alzato e si protendeva in avanti verso di lui, Havlock riprese la sua lezione improvvisata.
– Dovete sapere che si tratta di un procedimento molto complicato da mettere in pratica, e ancora più arduo sarà impararlo, perché non dubito che il generale provvederà ad insegnarvi tutto quello che c’è da sapere al riguardo.
L’eccitazione era adesso alle stelle. Sarebbero diventati anche loro come Havlock ed Ensifer?
– L’energia della mente non ha nulla a che vedere con l’energia che spendete tutti i giorni quotidianamente. Camminare, correre, parlare, persino dormire, sono tutte attività che richiedono energia vitale, quella che ogni essere animale ed umano possiede e che è accumulabile con l’alimentazione ed il riposo.
Pendevano dalle sue labbra. Nessuno si azzardava ad interromperlo. Catturare l’attenzione di chi era ignorante sull’argomento era facile. Ma con quello che avrebbe rivelato in seguito, sbalordirli lo sarebbe stato ancora di più.
– Il potere della mente invece, congenito in ognuno di noi, si assopisce alla nascita e rimane inutilizzato fino alla fine della vita. Tuttavia questa… “carica”… non rimane inattiva, anzi tutt’altro. Così come la nostra potenza muscolare migliora con l’allenamento, il movimento quotidiano e lo sviluppo del nostro corpo, anche la potenza del nostro cervello aumenta con l’esperienza quotidiana. Tuttavia una differenza esiste. Quando il corpo invecchia, la salute peggiora e la forza vitale diminuisce col passare del tempo; la forza mentale, al contrario, acquista maggior vigore poiché in età senile diventa, fra le due forze, quella che sostiene l’esistenza e posticipa la morte. Un uomo ben addestrato all’uso della mente, oltre che essere forte in battaglia, è anche un formidabile pensatore, vede il mondo con occhi differenti, subisce continue evoluzioni, sopravvive a difficoltà che un uomo non addestrato non saprebbe affrontare. Disciplina e obbedienza, sono tutto ciò che il generale vi chiederà in cambio della formazione militare.
Il silenzio dopo quell’ultima frase si protrasse a lungo. Nelle condizioni in cui si trovavano quei venti novizi, era ovvio che si sentissero confusi o inebetiti.
– Per… ma… a che… ¬– il balbettio di Edwin era più che comprensibile.
Galahad invece ebbe il coraggio di chiedere ciò che avrebbe voluto sapere sin da quando era stato loro riferito che sarebbero diventati cavalieri neri.
– Ma scusa… Havlock, vorrei farti una domanda.
– Chiedi pure Galahad.
– Perché noi? Perché tutto questo è toccato a noi? Prima di ieri non eravamo che dei vagabondi. Perché è spettato a noi l’onore di diventare cavalieri dello stendardo?
– Perché l’addestramento sulla forza della mente richiede che il corpo non sia troppo abituato all’addestramento fisico. In più, oltre ad una certa età diventa impossibile risvegliare il potere della mente. Voi siete giovani abbastanza da essere ancora in tempo. Il vostro corpo è nel picco di entrambe le forze, che sommati insieme sono di sicuro l’arma più potente che ci sia. Il vostro vigore fisico, non ancora contaminato da inutili mossette di scherma, l’energia che si cela nella vostra testa, pronta per essere sfruttata al massimo delle vostre capacità, vi rendono… come dire… i soggetti migliori per un addestramento di questo genere, nessuno all’infuori di reietti come voi sopporterebbe la fatica e la frustrazione. Capite cosa voglio dire? Siete come creta ancora molle fra le mani del generale, creta ancora plasmabile ed egli, ne son certo, vi farà diventare delle opere d’arte viventi, dei capolavori di umana evoluzione. Il futuro.
Havlock stesso, nel pronunciare quelle parole, si sentiva pervaso da impaziente fervore, suscitato dal suo stesso discorso.
– Questa sarà la prima volta che il paladino si cimenta in un addestramento di energia mentale, e sono proprio curioso di vedere come procederà. Sino ad oggi, io sono l’unico a cui ha insegnato a padroneggiarla. E non è stato per niente facile. Per me, ma soprattutto per lui. A questo bisogna aggiungere, poi, che vediamo questo potere sotto due punti di vista differenti… potete chiamare uomini come noi nel modo che preferite; il generale Anark li chiama “benedetti da Dio”; io li chiamo semplicemente maghi.
Era il colpo di grazia. Nella mente di Gal un turbine di confusione spazzava via tutto ciò che sapeva e tutto ciò che era. La realtà si sovrapponeva all’irrealtà. Ciò che era impossibile diventava possibile. La magia esiste? Sì, lo ha appena asserito Havlock. No, non magia. Ensifer la chiama benedizione. Dunque è un potere divino? Come? Com’è possibile? La magia fa parte di tutto ciò che ho sempre ritenuto impossibile… non può essere, sta mentendo… ma che vado a pensare? Non può mentire, è un fedele servitore del maestro! Forse che la magia di cui parla Havlock sia la stessa cosa che ha infiammato la spada di Ullrich? E perché lui e il maestro la chiamano in due modi differenti?
Il sorriso stampato sul volto del bibliotecario era la prova che fosse soddisfatto della reazione dei neofiti maghi.
– Saremo maghi? Saremo dei maghi! Ci prendi in giro?! – esplose Quintus.
– Niente affatto, caro. Sarete maghi e al contempo cavalieri. Sarete addestrati sull’energia mentale dal generale in persona, mentre riguardo alle vostre arti marziali, seguirete il normale addestramento per la classe della cavalleria pesante… da me.
No, il colpo di grazia non era quello di prima, ma fu questo. Due maestri per due discipline diverse. Venti paia di occhi sbalorditi puntarono il maestro Havlock. Qualcuno deglutì a forza. Qualcun altro cominciò a sudar freddo.
– Ricordatevi, tuttavia, che a dirigere l’allenamento è il generale, obbedirete a qualunque suo ordine, anche se contrasta con il mio. Ogni mio comando è come se fosse suo, ma non viceversa. Per secoli abbiamo collaborato alla ricerca della spada di Ullrich e ora che l’abbiamo trovata siamo più uniti che mai, di conseguenza verrò a sapere di chiunque disobbedirà al generale e le mie punizioni saranno doppie rispetto alle sue. Spero che questo sia chiaro. La disciplina è tutto, signori miei.
Secoli? Ha parlato di secoli? Una domanda si formulò nella mente di Galahad. Ma aveva paura della risposta.
Fu Volmar a dar voce alla sua curiosità.
– Ma… stai scherzando..? Secoli? Ma quanti anni avete tu e il generale?
Havlock rise a quella domanda.
– Lo sapevo che qualcuno l’avrebbe chiesto. Ensifer II Anark Modian nacque da una nobile famiglia del regno di Adellia nel 955, cioè 356 anni fa. Io sono più giovane di lui di quasi due anni.
Le bocche si spalancarono e qualcuno balzò in piedi in preda allo sgomento, come se fosse stato spaventato.
Proprio quando sembrava che non potesse strabiliarlo più niente, Gal si ricredette, si batté la testa con una manata cercando di capire se stesse sognando o se fosse la realtà. No, era la realtà. Era inutile cercare di mentire a sé stessi, era tutto vero. Il maestro Havlock sorrideva compiaciuto mentre gli allievi se ne stavano immobili fissando ora i suoi occhi scintillanti, ora la folta chioma di capelli che ricadeva sulla nuca, ora la barba lunga e scura che gli arrivava al petto.
Nel silenzio dell’incredulità, era quasi udibile il cuore di Galahad che batteva all’impazzata. La domanda che si pose in seguito fu l’emblema dello stato d’animo di tutti.
“Per la miseria! Havlock avrà qualcos’altro di strabiliante da dire, prima che il cuore mi scoppi in modo definitivo?”

Fine capitolo 6

Prossimo capitolo: Cancelli di sangue.

 
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Ti farei un applauso, ma tramite un post non è facile XD

Solo una cosa (o meglio, l'unica che mi sembra necessario far notare): si dice a malapena, non a mal appena.
 

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Ok se mi dai un'ora o due lo trovo e lo correggo, altrimenti mi fai un favore se mi dici dov'è :D

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Ah dimenticavo, grazie dei complimenti e dellla segnalazione! ;)
 
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io finalmente ho scoperto perché non posso darti tutti i punti reputazione che voglio
perché se te li dessi tutti manderei in palla il forum per 2 o 3 giorni di fila :D
 

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Ok se mi dai un'ora o due lo trovo e lo correggo, altrimenti mi fai un favore se mi dici dov'è :D

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Ah dimenticavo, grazie dei complimenti e dellla segnalazione! ;)
Firefox, ctrl+f. Te lo cercherei io, ma sicuramente fai prima a fare da te che non a seguire le mie indicazioni... senza contare che non c'è solo un'occorrenza di quell'errore.
 

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adamantium devo farti i miei complimenti ho iniziato a leggere i primi capitoli. Sei molto bravo la storia è molto bella, mi piace molto questo genere di racconti.
 

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Capitolo 7: Cancelli di sangue

Capitolo 7: Cancelli di sangue

Un alito di vento portava nella notte l’acuto stridio prodotto dal verso di un solitario rapace, un nibbio reale del sud. Sfrecciava per il cielo e si mimetizzava nelle tenebre della notte. Il passaggio fra le colline a ovest della città di Platino era fra i meno ospitali di tutta la regione. Il nibbio dalle ali dorate, il piumaggio vermiglio e la lunga coda a punta di lancia scrutava nel buio il terreno erboso da una vertiginosa distanza dal terreno. I prati si estendevano a perdita d’occhio dell’uccello solitario, ovunque volgesse lo sguardo non scorgeva altro che linee monotone e scure, oltre che delle favolose stelle luccicanti come le lucciole più brillanti nell’albero più ombroso. Il quarto di luna di quella notte pendeva dalla volta del cielo come una minacciosa falce mietitrice.
L’elegante uccello vagava per il cielo stellato alla ricerca di una preda che era mancata per tutta la giornata. I piccoli nel nido non potevano più aspettare; la madre avrebbe dovuto portar loro da mangiare, altrimenti sarebbe stata la fine; a costo di morire lei stessa di inedia, la femmina di nibbio reale non smetteva mai di cercare il nutrimento per i figli e non l’avrebbe fatto nemmeno quella volta.
Hans aveva una responsabilità grande come quella del nobile uccello che vedeva volteggiare in alto sopra la sua testa. Seduto presso una vecchia quercia, schiena contro il tronco, fissava le stelle e le rade nubi che correvano veloci spinte dal vento di settentrione. Ripensava agli avvenimenti della giornata e alla vita ultraterrena che avrebbe vissuto assieme a sua moglie, se non fosse stato per il provvidenziale intervento del ragazzo che gli aveva salvato la vita. Già... provvidenziale era la parola per descrivere quel salvataggio: solamente la divina provvidenza avrebbe potuto far sì che il giovane passasse per quella stretta via proprio mentre Hans stava per ricevere la pugnalata alla spalla sinistra.
I suoi compagni erano probabilmente tutti morti ed egli era rimasto l’unico esploratore in vita; l’unico sul quale gravava il peso della spedizione; ciò che aveva visto nei pressi della città di Cathsbat andava riferito al più presto al capo degli esploratori, al generale ed al re in persona. La sua patria era in pericolo. Cathsbat stava compiendo il primo passo verso l’espansione a occidente e il prima ostacolo che avrebbe incontrato era proprio il palazzo di Platino.
La tenue luce che la luna riversava sul mondo, allietava l’animo del triste esploratore rischiarando sia le tenebre che il suo cuore. Le lacrime che non sgorgavano dai suoi stanchi occhi colmavano invece il suo cuore d’acciaio, rendendolo duro e indifferente alle perdite che dovette subire poche ore prima. O almeno provava ad esserlo.
Una tremenda fitta alla spalla destra gli fece distogliere lo sguardo dalle oscurità del cielo e strizzare gli occhi con una smorfia di dolore. Lo straccio applicato sulla ferita dal giovane boscaiolo si stava allentando e il sangue ricominciava ad uscire lentamente, imbevendo il tessuto di linfa calda, che raffreddava quasi subito, al gelo della notte. Nella situazione in cui si trovava, la velocità di un esploratore era essenziale, perché da essa dipendevano migliaia di vite. Il suo salvatore gli aveva tuttavia impedito di muoversi anche solo di un metro, fino a che non fosse tornato con delle erbe mediche. In effetti, se Hans fosse morto dissanguato, la missione sarebbe fallita e la città sarebbe stata distrutta e saccheggiata, senza che venissero preparate le adeguate difese. Alla fine lo zio di Galahad aveva acconsentito a riposare fino a che non avesse ricevuto delle medicazioni. Ripensandoci, un piccolo ritardo di un’ora era un buonissimo prezzo da pagare in cambio della garanzia di vita dell’unico portatore delle informazioni. Riferire il tutto al ragazzo e mandarlo in città sarebbe stato inutile; con tutta probabilità il capitano degli esploratori non gli avrebbe mai creduto... questo se fosse riuscito a passare i cancelli orientali senza essere prima interrogato per delle ore dalle guardie!
Il freddo aumentava ogni minuto che passava. Il fuoco da campo acceso davanti a lui, risplendeva, ma non riscaldava molto. Si trattava di un braciere ridotto e non poteva biasimare il giovane per quello, dal momento che la tempesta del giorno prima aveva reso umida la legna del bosco.
Tornandogli in mente la gentilezza e la disponibilità del suo compagno di viaggio, si stupì nel pensare che di lui altro non sapeva che qualità; non conosceva né il suo nome, né da dove venisse.
Un suono di passi che rompevano i rametti per terra lo allarmarono e gli fecero voltare lo sguardo in ogni direzione, pronto a difendersi con una daga intrisa del suo stesso sangue, deciso a sopravvivere a tutti i costi. Scorse poi il giovane amico, tirò un sospiro di sollievo e rinfoderò il pugnale.
– Ah, lo sapevo! Il fuoco non è abbastanza vivo! Lei deve essere molto infreddolito! – disse mentre si avvicinava a grandi falcate.
– Non molto – mentì Hans.
– Non ho trovato la drimia, ma questo rilodio dovrebbe poter lenire il dolore. Devo solo tritarlo ed impastarlo, poi vedrà che toccasana per la sua spalla! – si sedette sull’erba, estrasse la pianta da una borsa a tracolla e l’ascia dall’anello alla cintura – vivere ogni giorno fra i boschi ha i suoi vantaggi – aggiunse poi ammiccando. Quel sorriso riscaldava il cuore di Hans più di quanto non facesse il braciere ai suoi piedi. Forse era il momento giusto per le presentazioni.
– Non darmi del lei, non sono poi così vecchio! Il mio nome è...
– Hans Burstbreath, vero? L’ho letto sul tuo elmetto intelato. Io mi chiamo Griash Alluris e sono il guardiano diurno del villaggio di Brinn; si tratta di una piccola comunità che si trova a sud del lago.
– E’ un grandissimo piacere fare la tua conoscenza, Griash di Brinn. Non sarei in vita se non fosse stato per te. Ti sono debitore.
– Non mi devi niente Hans. Anzi, direi proprio il contrario! Sono io che ti devo la vita. Se tu non fossi stato mandato ad esplorare il lago, sarei stato io ad incappare in quei tre energumeni e sarei di sicuro morto, non avendo il fattore sorpresa dalla mia parte. Se avessi dichiarato di essere un taglialegna di Cathsbat, non mi avrebbero creduto di certo. Nessun lavoratore di quella città si sarebbe mai spinto fin nei pressi di Brinn; è noto a tutti che Brinn è sotto l’influenza governativa e commerciale del Palazzo di Platino, sebbene sia a poche ore di cammino da Cathsbat.
Hans si sentì confortato da quelle parole sincere ed accennò un sorriso. La schiettezza di Griash era una qualità genuina; il ragazzo diceva ciò che gli passava per la mente senza remore, proprio come faceva Galahad. La lucidità e la freddezza con le quali aveva ucciso i due esploratori nemici, tuttavia, erano un chiaro segno che il giovane guardiano non fosse estraneo alla guerra e che la sua ascia si era macchiata di molto più sangue umano che animale.
Mentre per la mente di Hans vagavano turbini di pensieri, supposizioni e speranze, Griash lavorava con maestria le erbe raccolte. Sembrava che l’ascia non fosse soltanto un strumento di morte, ma era invece piuttosto evidente che con essa facesse molte più cose di quante ci si potesse immaginare. Dopo aver sparso le foglie su di una pietra le aveva tritate con la lama a mezzaluna e schiacciate in un impasto usando il lungo manico metallico, così come faceva una massaia con l’impasto del pane.
Hans sentì di poter parlare liberamente di qualunque cosa. Non poteva diffidare di una persona come Griash. Provava nei suoi confronti una grande ammirazione e un’infinita riconoscenza.
– Da cosa avevi capito che sono un soldato della città di Platino? Gli esploratori non portano alcuna insegna o divisa della città da cui provengono. Dunque come mai hai deciso di salvarmi piuttosto che scappare?
Griash fermò per un secondo il rotolamento della sua arma, ma riprese subito dopo con più forza.
– In verità, Hans, non lo sapevo affatto – una fugace espressione di disgusto si disegnò sul suo bel viso ed anticipò ad Hans le successive parole del boscaiolo – la tortura è una cosa abominevole, un’azione che degrada l’Uomo all’animale più selvaggio ed irrazionale; chiunque la pratichi è degno di essere punito severamente, che sia alleato o nemico non h alcuna importanza. Quando ti ho visto... steso lì per terra non ho... non mi sono... non avrei volu... – sottili rivoli di lacrime bagnarono le gote e l’impasto sul quale Griash era chino. Era pur sempre un ragazzo: uccidere non era cosa da tutti i giorni.
– La penso esattamente come te – sospirò Hans – io sono stato educato e cresciuto con dei principi simili ai tuoi e li ho tramandati a mio nipote. E’ stato arruolato nell’esercito del re, sai? – Cambiare argomento era la cosa migliore da fare, in quel momento – diventerà presto un cavaliere nero. Sono così orgoglioso di lui! Se lo merita; durante l’assalto dei barbari a Caracarn era stato il migliore di tutto il villaggio... non era mai indietreggiato di un passo ed incitava i suoi compagni a resistere fino all’ultimo. Quanti anni hai Griash? Mi sembrate coetanei.

 

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Capitolo 7: Cancelli di sangue

– Ho ventitre anni. Perché, quanti ne ha tuo nipote?
– Ne ha ventidue. Avete quasi la stessa età e avete le medesime qualità. Sono rari i ragazzi come voi.
– Non esageriamo... ho solamente fatto quello che avrebbero fatto in molti, Hans. Sono sicuro che tuo nipote sia una brava persona, a giudicare dal maestro che ha avuto. A proposito, come si chiama?
– Si chiama Galahad.
– Chissà, magari lo incontrerò in città. Ma forse non avremo tempo per le chiacchiere, o sbaglio?
– No, purtroppo non sbagli – Hans emise un ennesimo sospiro, questa volta di frustrazione – se l’esercito di cui dispone Cathsbat è completo di fanteria e macchine d’assedio, come penso che sia, la città sarà sotto assedio fra meno di quattro giorni. Le enormi radure circostanti la mia patria rivelano qualunque nemico tenti di avvicinarsi, dunque risulta impossibile per gli ingegneri nemici costruire le catapulte sul campo di battaglia. Nel caso se le trascinassero da metà percorso, forse avremo un giorno in più di vantaggio.
Griash raccolse l’impasto medico con la lama dell’ascia e si accostò alla spalla di Hans, che nel frattempo si era levato la benda e si era sollevato la spalliera mezza rotta della protezione di cuoio rinforzato. Raccolse poi l’impasto con la mano e la spalmò delicatamente sulla ferita riaperta. Il bruciore che avvertì Hans inizialmente scomparve dopo soli pochi secondi, il rimedio di rilodio faceva effetto quasi immediatamente.
Mentre riallacciava lo straccio attorno alla spalla dell’esploratore, Griash giunse ad una decisione.
– Combatterò con voi.
Hans fu sorpreso da quella frase. Ma ancora più sorprendente fu l’espressione del ragazzo. Non era né intimidito né agguerrito. Semplicemente sorrideva.
– Tu non... puoi! Sei solo un...
– Appunto, sono un ragazzo, ma sono capace e ho l’esperienza necessaria per brandire un’arma. Inoltre tuo nipote combatterà, sebbene sia più giovane di me.
– Questo è fuori discussione! Né tu né lui! Siete troppo giovani per morire! Questa non sarà una semplice scaramuccia e non ve la cavereste con un graffietto! I barbari non sono niente in confronto ai soldati ben addestrati di Cathsbat!
Il sorriso di Griash divenne un sogghigno – I soldati ben addestrati di Cathsbat non sono niente in confronto a me!
Senso di giustizia, caparbietà, audacia e superbia.
La copia perfetta di Galahad Kindheart.


– Non vedo il motivo di questo cambiamento di programmi, mio caro amico.
– L’hai detto tu stesso che non sono ragazzi comuni.
– Ed è esattamente così. Tutti e venti sono fuori dalla norma. Sono tenaci, volenterosi e un po’ arroganti.
Il generale Anark camminava su e giù per il piccolo studio adiacente alla sua camera da letto. Con le braccia conserte e il passo lento, rifletteva sull’importanza del tipo di addestramento che avrebbe dovuto e voluto fornire ai neofiti cavalieri neri.
– Suppongo che l’innesco sarà proprio quest’ultima caratteristica – continuò. – L’arroganza li porterà alla superbia; ognuno di loro si considererà migliore dei suoi compagni – continuò il generale – e la competizione non farà altro che alterare il loro già enorme potenziale, portandolo al livello necessario per la scintilla che innescherà la dispersione energetica. La fede nel Signore li aiuterà completando il percorso di apprendimento dell’innesco.
– Non sarà così facile, temo – Havlock assunse un’espressione scettica ascoltando quell’ultima frase – alcuni sono più dotati di altri, e questo lo posso percepire anche fin da qui mentre dormono nei loro letti. Qualcuno raggiungerà l’innesco prima di qualcun altro. La demoralizzazione si impadronirà di coloro che non riusciranno a distinguersi nel gruppo e si abbatteranno a tal punto che rinunceranno all’addestramento, sebbene anche il più debole fra di loro sia il più forte fra tutti i giovani di questa città.
– Possibile, ma improbabile. Tu mi chiedi di rischiare laddove non c’è bisogno di rischiare. La separazione delle esperienze priverebbe l’uno della conoscenza degli altri, e questo rallenterebbe di molto l’addestramento.
– Non è detto che vada così, Ensifer. Sono convinto che il gioco di squadra porterà più vantaggi che svantaggi. Una squadra arriverà a scoprire cose che le altre non conoscono, sfrutta questa conoscenza per avvantaggiarsi rispetto alle altre e ad arrivare a traguardi più concreti. Ma questo non farà altro che incentivare le altre squadre a trovare un rimedio per mettersi in luce e superare la squadra inizialmente considerata la migliore. La demoralizzazione non troverà spazio nelle loro menti, se queste saranno occupate da rabbia e passione. Non era forse stato lo stesso per me?
Ensifer tornò con la mente a moltissimi anni prima, quando Havlock era alle prime armi e non sapeva nemmeno come attivare o disattivare il flusso di energia.
– Con te fu diverso, amico mio. Ti è stata concessa la grazia de Signore grazie alla tua bontà d’animo e all’amore verso l’Uomo e le arti.
– Ensifer io...
– No Havlock, non c’è bisogno che tu aggiunga altro. Lo so come la pensi al riguardo e me ne ero fatto una ragione già molto tempo fa. Il Signore mi ha dato un compagno straordinario e io non posso fare altro che ringraziare il cielo. Nel passato, nel presente e nel futuro, le tue conoscenze tecniche e la tua disponibilità sono una costante che io non devo e non posso dimenticare. Ti devo molto, amico mio.
– E io devo molto a te, mio maestro. Io non sarei qui se non fosse per la tua benevolenza nei confronti di un miscredente. Tu rischi molto a tenermi in casa tua, Ensifer. Non sono degno della tua ospitalità.
– In vero la tua presenza in casa mia mi onora, Havlock. Sebbene tu non voglia ammetterlo, posso percepire dal tuo respiro e dal tuo sguardo che la malinconia ti attanaglia il cuore da ormai troppo tempo e che desideri tornare a casa più di ogni altra cosa, ma il senso del dovere è forte in te così come lo è nei ragazzi che abbiamo conosciuto. Non posso fare altro che essere riconoscente a Dio per il favore che mi concede, affiancandomi a delle persone così speciali.
Havlock fu preso da un momentaneo senso di imbarazzo e disagio. Ensifer era sempre stato molto buono con lui, ma non aveva mai manifestato la sua ammirazione nei suoi confronti in quel modo. Nemmeno quando riuscì a provocare per la prima volta una scarica elettrica fra due dita delle mani, cento anni prima, uno degli esercizi più difficili da praticare, ma sicuramente non il più difficile.
Il fuoco del caminetto scoppiettava vivido e le fiamme si inerpicavano fra la legna e le mattonelle agitandosi e contorcendosi come serpenti indispettiti. La luce proiettata dalle lingue di fuoco sulle pareti del locale erano deboli e tremolanti; i muri ingrigiti reggevano da molto tempo il peso di quadri favolosi, il più bello dei quali appeso proprio sopra il camino, dal titolo “Redenzione”. Ensifer lo fissava proprio in quel momento: uno sporco mendicante senza un braccio si inginocchiava davanti alla Luce celeste scesa in terra, mentre una persona con le sue identiche fattezze, ma con il braccio e con abiti lindi, cercava di risollevarlo da terra. Il generale tirò un sospirò profondo e rabbrividì all’idea che il suo addestramento potesse fallire. In cuor suo sapeva che ce l’avrebbe fatta, con l’aiuto del Signore, ma la remota possibilità che non riuscisse nel suo intento lo sconvolgeva al solo fugace pensiero. “Signore dammi la forza. Confido nella tua benevolenza e mi rassegno al tuo volere” pregò.
Havlock ritenne che il brivido che percorse la schiena del maestro fosse dovuto al gelo dell’inverno e si prodigò affinché il locale fosse più caldo. Sì alzò immediatamente dalla sedia di fronte alla scrivania e si portò di fianco ad Ensifer, di fronte al camino. Stese le mani verso il fuoco ed innescò.
Fu un attimo. Occhi più rossi dell’inferno e più splendenti del rubino più puro si sostituirono a quelli castani e calmi che esibiva in pubblico. Le pupille si restrinsero, l’energia circolò e divenne un tutt’uno con il suo essere. Reprimendo la malinconia e stanchezza, attinse alla riserve di energia accumulata durante la giornata; ne bastava una minima parte per quello che doveva fare. La dispersione dell’energia si avviò alla velocità del pensiero, le mani erano il tramite del passaggio. Il fuoco del caminetto venne inondato da energia mentale, che nel frattempo si era tramutata in combustibile puro; le fiamme divamparono per una frazione di secondo, per poi abbassarsi e bruciare più ardenti di prima.
– Va meglio? – chiese al generale, senza distogliere lo sguardo dal fuoco.
 
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