Con orrore Merc si ritrasse dal corpo di Havlock. Le iridi degli occhi di quell’individuo stavano mutando colore, da castano divennero color mogano e poi, di colpo, di un rosso vermiglio. Un sorriso di superbia comparve su quel volto emaciato. Se ne accorsero pure gli altri due che si fecero da parte, temendo che Havlock fosse infetto da qualche malattia contagiosa. Ma erano completamente fuori strada.
Dopo aver visto una spada avvampare di fuoco vero, e la persona che la brandiva rimanere illesa, i giovani allievi ritenevano che non si sarebbero più meravigliati di fronte a nient’altro al mondo, tuttavia ciò che si manifestò di fronte a loro in quell’istante superò di gran lunga la spada di Ullrich.
Il corpo di Havlock Ghatus si levò da terra con lentezza, in posizione orizzontale, senza l’ausilio di alcun sostegno, si inclinò poi in posizione eretta per poi ricadere con grazia e leggerezza sulle punte degli stivali bendati. I suoi occhi erano ancora rossi, ma non iniettati di sangue. Lo sguardo era fermo, proprio come lo era quando si era presentato. Guardava tutti coloro che aveva di fronte, uno ad uno, strizzando gli occhi, evidentemente nel tentativo di identificarli. La paura che aveva suscitato sarebbe durata per tutto il tempo che i suoi occhi fossero rimasti del colore del sangue.
Il suo sguardo cadde poi sui pezzi di legno di betulla fra i suoi piedi. La sua cetra. Distrutta. Si inchinò posando le natiche sui calcagni, ne raccolse un pezzo, un secondo, un terzo, poi una corda, ma era inutile, non poteva essere riparata. Senza levare gli occhi da ciò che era il suo strumento, si rivolse ai venti ragazzi. Le parole graffiavano come lame affilate sebbene pronunciate con calma ed autocontrollo.
– Un malfattore… che si aggira per la residenza del generale Anark… suonando una cetra nell’unico posto del maniero in cui un rapinatore non cercherebbe mai?
Una domanda retorica che faceva crollare tutti i sospetti che avevano avuto su di lui. Furono pervasi dalla costernazione più mesta. Le scuse però non vennero pronunciate, tanto erano paralizzati dal modo in cui Havlock si era alzato da terra. Dio, è levitato in aria! Questo tizio è un… mago! Pensò Gal.
Havlock prese poi in mano la statuina di ferro accanto ai frammenti di legno, proprio quella che lo aveva colpito in fronte.
– “La rinascita dell’eroe” di Nyon Neyon. Non è fra le opere più riuscite del mio amico scultore, ma il livello di tutti i suoi prodotti non si abbassa mai sotto quello di “bello” – girò fra le mani il pezzo di metallo raffigurante un mostro marino che spuntava fuori dalle acque con le fauci spalancate ed un lanciere che conficcava la sua picca nella gola della creatura. Picca che era ormai deformata e mancante del manico.
Si volse poi verso Primus, l’autore di quel danno.
– Ottima mira, ragazzo. La prossima volta però lancia un volgare ciòttolo, e non un pezzo d’arte.
Galahad, così come tutti gli altri, non credeva ai suoi occhi. Il viso di Havlock, sebbene imperlato di sudore, non presentava alcuna traccia di ferite. Pensava che un colpo come quello infertogli da Primus avrebbe dovuto almeno farlo sanguinare!
Gli occhi di quell’uomo tornarono poi al colore originale e si alzò in piedi, questa volta come una persona normale, ergendosi sulle esili gambe.
– Il mio nome è Havlock Ghatus. Ho l’onore di servire il generale nella sua prestigiosa biblioteca come custode degli annali e dei manoscritti più rari, nonché come guida del maniero e, prima che la mia bella cetra venisse distrutta, come musico. Dopo che avremo curato quel combina guai di Harti, voi vi presenterete uno ad uno.
E non era una domanda.
Sassolini lordati di fanghiglia entrarono nella bocca di Hans dopo essere stato scaraventato faccia a terra da un pugno poderoso. Il petto e le gambe, prive di armatura solida, strisciarono sulle pietre lacerando quegli indumenti che gli offrivano l’unica protezione, a parte il caschetto scintillante. La daga non era più in suo possesso. Gli era scivolata dalle mani prima ancora di ritrovarsi per terra sulla riva meridionale del fiume che si immetteva nel lago Grothier, ed ora giaceva lì davanti a lui, sotto lo stivale del suo aggressore.
Donox, il suo compagno, era stato ucciso, mentre lui era in fin di vita. Gli avversari erano inizialmente due, ma dopo aver ingaggiato lo scontro, un altro si aggiunse a loro, risalendo una via laterale dalla foresta, rendendo la lotta impari. Prima di esalare l’ultimo respiro Donox aveva messo fuori combattimento uno degli energumeni facenti parte del gruppo di pattuglia nemico. Ma ora erano in due su di Hans e la fine sembrava certa.
– Cosa c’è? Vuoi questa? – il bestione, più grosso e giovane di lui, raccolse da terra la daga dell’esploratore e gliela agitò davanti agli occhi, mentre l’altro sogghignava sadicamente.
Hans sputò le pietruzze che gli erano finite fra i denti, guardò in alto verso il volto del suo nemico, o almeno cercò di farlo. Era da poco passato mezzodì e i raggi del sole, più accecanti che mai, colpivano la terra a perpendicolo; il rivolo di sangue che scendeva dalle tempie raggiunse l’occhio destro, facendolo desistere dal proposito di osservare la prossima azione del suo aggressore. Non poté fare altro che attendere che la morte sopraggiungesse, inesorabilmente. Il suo pensiero andò a Galahad e alla sua occasione di redimersi. Non sarebbe più stato chiamato “reietto di Caracarn”. Molto presto lo avrebbero chiamato “Cavalier Galahad”, membro dei più forti combattenti della città di Platino, addestrati dal paladino in persona. Il sorriso che accennarono le sue labbra all’orgoglio che provava per il nipote, sebbene quasi impercettibile, non sfuggì al guerriero che ora aveva posato la suola degli stivali sul capo del vecchio esploratore. Aniax, il suo bellissimo cavallo bianco, se ne stava tranquillo sorseggiando acqua sulla riva del lago, ignaro di ciò che incombeva sulla testa del suo padrone.
– Allora? La rivuoi? Be’ se è questo che vuoi, allora prendila!
L’urlo di Hans gli si strozzò in gola. Le lacrime non caddero. Il gelo della ghiaia sotto al suo corpo divenne fuoco. Non osò nemmeno voltarsi per guardare inorridito la daga penetrata nella spalla destra. Stringere i denti non gli riuscì pero bene ed esalò un tremendo rantolo di agonia. Ma quel suono fu coperto dalle risate maniacali dei due soldati di Cathsbat.
Non c’era confine alla malvagità umana. La tortura era appena cominciata. Hans non aveva mai torturato nessuno in vita sua. Se il nemico si rifiutava di dare informazioni, lui faceva sì che la sua morte fosse rapida e priva di dolore. Ma ora stava sopportando ciò che aveva pregato di non subire mai.
– Vediamo quanto resisti, vecchio – l’ammasso di muscoli si inginocchiò accanto al suo volto e sussurrò – sai, alla tua età non dovresti andare in giro a ficcare il naso negli affari degli altri. Da dove vieni?
Silenzio. Hans strinse le palpebre e cercò di fissare un’immagine nella sua mente, nel suo essere, quella di sua moglie Hariet. “Per te, amore, devo sopportare per te, tesoro mio, e se Dio vorrà oggi staremo insieme dopo così tanti anni in cui siamo stati separati”.
Quando la daga fu estratta dalla sua spalla, digrignare i denti non fu possibile e il gemito che gli uscì dalla bocca fu assordante. Il sangue ricadeva a fiotti, caldo, sulle selci e i sassolini gelidi. Qualche gabbianella lacustre si librò in volo, spaventata dal lamento eroico del testardo esploratore.
La punta della sua arma si posò poi sulla spalla sinistra, sul tessuto della maglia che si era ormai incollata alla sua schiena a causa del sudore.
– Hai mai provato a mangiare senza usare le braccia? No? Se non vuoi sapere cosa si prova, forse è meglio se mi dici qualcosa. Mi basta un piccolo nome. Qual è il nome del tuo re? Dimmelo e ti lascerò tornare dalla tua famiglia. Tu devi essere un buon padre, hai l’aspetto di una persona molto intelligente. Sono sicuro che adesso mi risponderai, nevvero? – quasi sussurrava al suo orecchio, come una sirena tentatrice.
Hans non pensava che avrebbe retto ad un'altra pugnalata. Cominciava già a perdere la sensibilità del braccio destro e la vista era annebbiata. In testa, ora, regnavano solo il dolore e la paura. Non c’era più spazio per la razionalità. Ma neanche per il tradimento. L’accettazione del proprio destino era ormai completa. Raccogliendo gli ultimi barlumi di forza che gli rimanevano, sputacchiò sullo stivale proprio di fronte ai suoi occhi ed urlò.
– Mai!
Schizzi di sangue imbrattarono il volto di Hans Burstbreath, ma non il suo sangue. Riuscì a malapena a vedere l’uomo di fronte a sé cadere a terra supino con un tonfo sulla ghiaia, sollevando polvere e sassolini dappertutto. Lo stesso suono, seguito da un orribile rantolo di agonia gli fecero capire che la stessa sorte era toccata al suo compagno. Hans era ancora frastornato, oltre che nella sofferenza peggiore che avesse mai patito, ma i sensi ancora lo sostenevano e gli impedivano di abbandonare la realtà. Seguì il suono di passi nella ghiaia; un individuo dalla carnagione chiara e del corpo possente estrasse dal petto del secondo malcapitato l’arma con la quale lo aveva ucciso, un’ascia bipenne completamente in metallo, ora per metà ricoperta di fluido vitale. La ripulì alla